08/03/10

Quando lo Stato si fece banchiere

Questo è un articolo tratto da "IlSole24Ore" del 30/11/08 scritto da Valerio Castronovo che spiega molto bene la situazione che si era venuta a creare quando lo Stato entrò nel mondo bancario italiano (quando le banche furono quasi statalizzate in poche parole).



I «salvataggi» del '29. La nazionalizzazione dei tre principali gruppi del credito negli anni '30

Quando lo Stato si fece banchiere

UNA CRISI DIVERSA - Tre anni prima del crollo di Wall Street l'economia italiana si bloccò a causa della manovra deflattiva voluta dal
regime fascista - GOVERNO PADRONE - Dopo il salvataggio delle banche di interesse nazionale molte grandi industrie restarono a
lungo sotto il controllo dell'Iri
Valerio Castronovo
di Valerio Castronovo
Fra le misure anti-crisi contemplate dal Governo figura anche, in caso d'emergenza, l'ingresso dello Stato nel capitale delle banche. A
questo riguardo c'è perciò chi ha evocato quanto accadde in Italia all'indomani della Grande crisi del 1929. In effetti, anche allora il
Governo s'impegnò a varare appositi interventi di sostegno alle banche, salvo poi dover includere quelle di maggior stazza, che non
era riuscito a riportare sopra una linea di galleggiamento, nell'ambito della sfera pubblica, in pratica nazionalizzandole.
Ma non è soltanto per questo che si riscontra una sostanziale differenza fra i rimedi previsti oggi, qualora se ne presentasse la
necessità, e quelli a cui si ricorse negli anni Trenta. Il fatto è che quella di allora fu una crisi scaturita dagli anfratti dell'economia reale,
dovuta innanzitutto, sia negli Stati Uniti che in Europa, a un crescente squilibrio fra produzione e consumi, e che in Italia si manifestò
tre anni prima del 1929. E ciò a causa della manovra deflattiva attuata dal regime fascista nel 1926 e tradottasi, oltre che in una
riduzione d'autorità dei salari e degli stipendi, in una rivalutazione oltremisura della lira per motivi di prestigio nazionale. L'industria
s'era così trovata alle prese con un'accentuata flessione della domanda, con la restrizione delle commesse pubbliche e con una
minore capacità competitiva delle proprie merci nei circuiti di mercato internazionali.
Se fin da subito le principali banche, dalla Commerciale al Credito Italiano e al Banco di Roma, risentirono pesantemente dei guai
capitati addosso alle maggiori imprese, fu perché esse, da più di vent'anni, provvedevano in larga parte al finanziamento industriale,
anche sotto forma di rilevanti partecipazioni azionarie. Così che il tonfo della produzione e la frana in Borsa dei titoli delle imprese più
altolocate finirono per coinvolgere questi tre istituti bancari, dato che non poterono esigere il rimborso di molti dei loro crediti e videro
deprezzarsi i pacchetti azionari in loro possesso. In pratica, il rapporto tra banca e industria, da "fisiologica simbiosi", si era tramutato
in "una mostruosa fratellanza siamese", per dirla con Raffaele Mattioli, allora giovane dirigente della Commerciale.
Di fatto, nel 1932 gli immobilizzi industriali ammontavano a quasi tre volte il totale dei depositi a vista e dei conti correnti. Perciò le
condizioni sempre più precarie di numerose aziende minacciavano non solo di travolgere le principali banche a cui esse erano legate
a doppio filo, ma anche di far terra bruciata di una parte cospicua del risparmio nazionale, nonostante le sovvenzioni concesse nel
frattempo agli istituti di credito più traballanti dalla Banca d'Italia.
Di fronte alla minaccia che il sistema bancario colasse a picco gettando sul lastrico milioni di risparmiatori appartenenti per lo più alla
piccola borghesia (il cui consenso era oltretutto il piedistallo del Regime), non restò a Mussolini che far propria la soluzione
suggeritagli dai vertici della Commerciale. Che era di salvare la Comit e le altre due "banche miste", di deposito e d'investimento,
trasformandole in istituti di diritto pubblico. Ciò che avvenne dopo la creazione nel 1933 dell'Iri, per cui lo Stato mise a disposizione i
capitali necessari a coprire le perdite della Commerciale, del Credito Italiano e del Banco di Roma e acquisì contestualmente le loro
partecipazioni industriali.
Quanto l'Iri si trovò così a ereditare non consisteva in una massa di titoli puramente cartacei, più o meno tossici, come quelli che nei
mesi scorsi sono risultati in pancia a varie banche negli Usa e altrove (e, seppur in misura assai più esigua, in quella di taluni nostri
istituti di credito). Si trattava, invece, di immobilizzi e quote azionarie in diverse imprese che, pur malconce, contavano fior di impianti,
oltre a brevetti, reti commerciali e servizi complementari.
D'altra parte il presidente dell'Iri Alberto Beneduce e il direttore dell'Istituto Donato Menichella, non erano solo dei manager di
prim'ordine e indipendenti (senza la tessera fascista) ma erano tutt'altro che di orientamenti statalisti (come, in verità, non lo era
nemmeno Mussolini che li aveva chiamati a tali incarichi, benché fosse riemerso in lui, in quel drammatico frangente, un fondo di
animosità anticapitalista ereditato dalla sua lontana militanza di socialista rivoluzionario). Perciò, l'obiettivo che essi s'erano posti era
di dismettere al più presto le imprese passate sotto l'egida pubblica, ricollocandole sul mercato a prezzi comunque tali da ripagare, se
non completamente, parte delle spese affrontate dallo Stato per risanarle.
Se poi l'Iri venne trasformato nel 1937, da un convalescenziario in un ente permanente, e diede così vita non solo allo "Stato
banchiere" ma anche allo "Stato imprenditore", ciò si dovette a due circostanze sopraggiunte nel frattempo. La prima fu la riforma
bancaria del 1936 con cui, da un lato, si stabilì una netta distinzione fra esercizio del credito ordinario e quello del credito mobiliare,
sotto la vigilanza della Banca d'Italia; e dall'altro la Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma vennero trasformati in "banche
d'interesse nazionale" mantenendone tuttavia criteri di gestione in linea con le regole del mercato. La seconda circostanza, per cui
numerose imprese rimasero sotto le insegne dell'Iri, fu che il loro smobilizzo non potè avvenire per varie cause: dalla carenza di
capitali di rischio in un mercato finanziario asfittico come quello italiano, alla persistenza di una congiuntura economica avversa; dalla
riluttanza dei gruppi privati a sborsare quanto debitamente richiesto dall'Iri per la retrocessione di alcune aziende, al varo del piano
autarchico successivo alla guerra d'Etiopia, alla politica di riarmo del Regime che lo portò a mantenere sotto suo diretto controllo
alcuni complessi considerati di carattere strategico (a cominciare da quelli siderurgici e cantieristici, d'altronde già in passato
largamente foraggiati dallo Stato).
Fu così che l'Italia fascista finì per figurare in Europa subito dopo l'Unione sovietica per grado di statizzazione della sua economia.
Beneduce in visita a Londra), lo Stato mise a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite dei tre principali istituti
bancari degli anni Trenta: la Banca commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma e acquisì le loro partecipazioni
industriali. L'Iri ereditò quindi le quote azionarie di diverse imprese spianando la strada allo «Stato imprenditore»

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